Le ricerche di Vincenzo Allegrezza nel Lazio Settentrionale comprendono sia l’Arco del Mignone che il territorio della Tuscia.
Conferenza del 16 marzo 2019 presso la STAS (Società Tarquiniese di Arte e Storia) di Tarquinia, presieduta dalla Presidente Alessandra Sileoni:
“La tecnologia dell’olivicoltura e del frantoio nell’antichità”
PIANTAGIONI DI OLIVI E DI VITE
Innanzi tutto per sapere quali tesori i Romani depredarono agli Etruschi bisogna rilevare che essi consistettero nelle piantagioni di olivi, soprattutto, e di vite.
Da queste considerazioni ho studiato il territorio intorno ad un centro, quello di Aquae Tauri, che in epoca etrusca fu densamente popolato. Ciò lo sappiamo dalle necropoli di “Pisciarelli” dove sono state rinvenute già nel 1800 numerose sepolture tra il VI e il V secolo a.C. che dovevano costituire la necropoli di quell’abitato etrusco di cui ci parla Plinio il Vecchio con quel nome citato, come etnicamente specifico.
INTENSO SFRUTTAMENTO OLIVICOLO
All’indomani della conquista romana la preoccupazione fu quella di realizzare un territorio sfruttato intensivamente economicamente, e militarmente organizzato. Infatti tutto il territorio circostante la città, forse un tempo terreno “pubblico” fu sottoposto con la presenza romana ad intenso sfruttamento olivicolo.
Sappiamo ciò da quanto possiamo rilevare che siti sorgenti sulle pendici montante e collinari intorno al centro abitato sono stati realizzati già nella seconda metà del III secolo a.C. con una specifica destinazione olivicola, come possiamo rilevare dalla presenza di numerose basi di presse olearie, le c.d. arae di cui ci parla Catone.
Possiamo rilevare ciò sia da quanto ci riportano studiosi come Salvatore Bastianelli nei suoi “Appunti di Campagna”, sia dai rilievi fatti dallo scrivente da siti come “Sferra Cavallo” per fare un esempio. Ma il novero potrebbe continuare, si pensi a tutti gli altri insediamenti nei toponimi, come “Capo d’Acqua” (si tratta di un termine evocativo che ci riporta a “Aquae Tauri”), e anche “Le Larghe” e “Ponton dei Fiorazzi”. Presso tutti questi toponimi si rilevano siti dove possiamo trovare basi di presse molto ben curate e pressoché coeve alla seconda metà del III secolo a.C., che sembrano cingere tutta l’area che dovette essere di stretta imputazione del centro etrusco.
Santuario etrusco e fattoria olivicola
Per quanto riguarda “Ponton dei Fiorazzi” si rileva la presenza di un piccolo santuario etrusco e, forse, poi romano, oltre ad una fattoria con forte vocazione olivicola. In ogni caso ad una quota più elevata troviamo il santuario di “Poggio Granarolo” in cui è documentato l’esistenza di un altro centro sacro, numerosi sono i resti di frammenti “anatomici” ed “ex voto” registrati dalla stessa Soprintendenza dell’Etruria Meridionale, così ad Ovest troviamo il tempio tardo etrusco di “Scarti di S.Antonio” dove lo scrivente trovò importanti acroteri d’epoca etrusca, ascrivibili forse alla fine del III secolo a.C., e sui resti del quale dovette sorgere nel 170 a.C. una villa che distrusse gli antichi resti di santuario. Evocativo è il periodo di scontri etnici che ebbe il suo apice nel senatoconsulto “De Baccanalibus”, a sottolineare un effettivo scontro tra popolazioni ancora non sopito. Anche tale insediamento era dotato di una base di pressa olearia.
Estesi oliveti e studio genetico
Lo scrivente, considerata questa realtà di numerose presse olearie ha dedotto l’esistenza di estesi oliveti, che erano stati realizzati già in epoca etrusca, quindi ha ricercato se si potevano individuare i resti di antiche cultivar nel comprensorio.
Una forte presenza di olivi selvatici si riscontravano nel lato Nord di “Sferra Cavallo”, e nella grande macchia de “L’Infernaccio”. L’idea dello scrivente fu che tali olivi selvatici potevano essere una nicchia ecologica in cui, al margine dei campi coltivati, si erano “congelate” le antiche colture sotto il profilo genetico, allora decise di coordinare un esperimento con il CNR–IBBR (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto di Bioscenze e Biorisorese), questo esperimento consisteva nell’indagare geneticamente le testimonianze di olivi selvatici per accertare se a livello di “germoplasma” si fossero mantenuti dei particolari dati genetici che ci potevano riportare ad antiche coltivazioni. I risultati portarono alla scoperta di olivi “selvatici puri”, che dovevano ricondursi a coltivazioni risalenti almeno all’epoca etrusca.
Essi infatti non avevano traccia di dati genetici acquisiti successivamente a tale periodo, nemmeno dalla dominazione romana.
E’ però solo un tassello, un’indagine accurata potrà dimostrare o smentire tale assunto, ma servono impegni economici rilevanti, magari con finanziamenti europei. Non è un caso che all’interno di questa “nicchia” sorgeva un’altra fattoria da determinarsi risalente al periodo del III secolo a.C., con un ricco frantoio i cui resti ci sono stati tramandati dai disegni di Bastianelli.
Un “Museo diffuso del frantoio”
Al fine di questa piccola carrellata, che altro non è che un “tassello” di quanto lo scrivente ha riversato nel suo primo libro “Olio e produzione olearia in Roma antica”, e nel secondo inedito “L’olio d’oliva nell’antichità. Dal Mediterraneo alla Tuscia, e Leonardo da Vinci”, possiamo dire che la grande quantità di arae funzionali alla produzione olearia (si pensi anche a Pian degli Organi) potrebbero delineare questo territorio nell’entroterra di Civitavecchia e nell’Arco del Fiume Mignone come un
“Museo diffuso del frantoio”.
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