NEL DNA DEGLI OLIVI SELVATICI I LORO “PROGENITORI ETRUSCHI”?

*Brani tratti da un articolo pubblicato dalla Rivista di Storia dell’Agricoltura dell’Accademia dei Georgofili, 1,2017

La presenza di olivastri nell’Arco del fiume Mignone o in porzioni della Tuscia pone importanti interrogativi.

L’aspetto più affascinante di questa tematica è che, mentre gli impianti di olivo coltivato in antico sono scomparsi quasi totalmente, nelle aree adiacenti incolte sono sopravvissuti soltanto gli olivastri, non si sa ancora se quelli originali, totalmente diversi dalle varietà coltivate, oppure siano presenti anche quelli imparentati con queste. Soltanto attraverso l’esame del DNA di tali piante sarà possibile accertare l’origine di questi alberi. Questa forma di rinselvatichimento è un dato acquisito dalla scienza agronomica e giuridica, ed è un dato vegetazionale predominate anche nei territori considerati. Lo stesso si può dire della vite.

Vale spendere due parole per cosa si intende per “rinselvaticamento”, cioè spesso con esso si intende quel fenomeno che riguarda delle piante che un tempo costituivano varietà selvatiche dell’olivo coltivate dall’uomo in modo da renderle fruttifere, sfruttando spesso piante selvatiche originarie del luogo, opportunamente trattate. In sostanza secondo R. Mariotti le piante attuali potrebbero essere dei semenzali (piante venute da semi) di varietà coltivate anticamente e che, anche per questo, oggi si presentano in una forma selvatica: in inglese feral forms. Queste piante mantengono i caratteri genetici della pianta madre (cloroplasto e mitocondrio) e solo il 50% del DNA nucleare, l’altro 50% proviene dalla pianta impollinatrice (donatore).

A lungo avevamo sognato che si potessero avere dei dati genetici ricavati da quelle piante che hanno caratterizzato il paesaggio agro-forestale dell’Arco del Mignone. Si è potuto procedere, per ora, allo studio del DNA plastidiale di un numero limitato delle risultanze agroforestali costituite dagli olivi selvatici che insistono su determinate e limitate aree caratterizzate da preesistenze romane, quali le località di “Sferra Cavallo”, “Colline dell’Argento-Costa Romagnola”, “Macchia dell’Infernaccio”.

Tutti questi settori che abbiamo individuato topograficamente, rientranti nel territorio dell’odierno Comune di Civitavecchia, da noi scelti a campione per le loro caratteristiche pedologiche e agroforestali, sono caratterizzati dalla presenza di piante che inizialmente si potevano classificare come oleastri solo ipoteticamente, cioè piante di olivi selvatici che non avevano subito manipolazioni moderne, o forse erano da ricondurre a olivastri, cioè a olivi di origine antropica, con successivo inselvatichimento di piantagioni umane risalenti a epoche recenti o meno o infine da disseminazione naturale da semi di olivo provenienti dai vicini oliveti? Come già si è anticipato, tali interrogativi sono stati parzialmente sciolti da un preliminare studio, da me suggerito, sulla base di quanto sopra, e condotto dal CNR- IBBR (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Bioscienze e Biorisorse) di Perugia. Un’équipe di studiosi specializzati in biologia molecolare e agronomia è stata accompagnata dallo scrivente in un’escursione volta all’individuazione di siti con resti romani costituiti da edifici rustici e con un contesto agroforestale caratterizzato dalla presenza di olivi selvatici e altre specie, tra cui peri selvatici. Gli scriventi hanno mostrato agli studiosi la presenza di questi eccezionali resti funzionali alla produzione olearia d’epoca romana (i famosi resti di torchi, costituiti per lo più dalle pietre che servivano per accatastare e pressare i fiscoli…) e le preesistenze arboree che noi ipotizziamo siano relitti delle antiche cultivar di epoca romana.

L’équipe del CNR-IBBR di Perugia ha selezionato ventisette campioni dalle presenze arboree di questi olivi presenti nei siti evidenziati, campionando foglie, ma anche frutti, che generalmente, ma non esclusivamente, sono di dimensioni ridotte rispetto alla media degli olivi coltivati di piccole dimensioni. Il DNA è stato estratto da ogni campione e sono state effettuate le prime indagini genetiche atte alla classificazione degli stessi. Negli ultimi decenni, sono stati pubblicati numerosi lavori scientifici sullo studio delle differenze tra gli olivi selvatici e le piante coltivate, ma solo recentemente è stato possibile prospettare le prime ipotesi sulle possibili origini dell’olivo domesticato, dall’estremo est del Mediterraneo o addirittura più a est. Grazie ai marcatori plastidiali si è stabilito che la gran parte delle varietà di olivo attualmente coltivate (80-90%) condivide lo stesso lineage o discendenza e quindi la stessa origine materna, a differenza degli olivi selvatici, caratterizzati da altri lineage. I dati preliminari che sono emersi dall’esame dei marcatori plastidiali28 utilizzati su queste piante, hanno confermato che quasi tutti i campioni analizzati possiedono lo stesso genoma plastidiale dei selvatici situati al centro e ovest del Mediterraneo.

Questo potrebbe far supporre la possibile origine delle coltivazioni olivicole del complesso e articolato panorama del comprensorio di Civitavecchia in epoca anche preromana dalla messa in coltura di piante selvatiche già presenti nel territorio . Infine vogliamo sottolineare come varietà di olivo attualmente coltivate presentano, in rarissimi casi, tratti del DNA selvatico, testimonianza di  una sopravvivenza di un antico selvatico che poi si sarebbe affermato e conservato come vera e propria cultivar fino ai nostri giorni.

Questo è il caso della cultivar Canino, ampiamente coltivata nel Lazio e cultivar di riferimento di una Denominazione di Origine Protetta. I dati molecolari quindi possono rivelare l’origine delle varietà, specialmente se supportati da dati storici e archeologici. Queste evidenze potrebbero aiutare a rilanciare l’agricoltura locale, basata su varietà locali, magari già note in epoca etrusca o romana. Data la vicinanza a Civitavecchia, che ha una storia millenaria, ci si sarebbe aspettati di trovarci dinanzi alla presenza di olivi prossimi alla domesticazione, o varietà rinselvatichite, o relitti di antiche cultivar.

Dai dati genetici è evidente che si tratta di un’origine selvatica in tutti e tre i siti, mentre soltanto due piante, tra quelle campionate, risultavano appartenere al clorotipo coltivato.

Ci troveremmo quindi di fronte a relitti di antichissime coltivazioni o a semenzali di queste.

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LA TRASFORMAZIONE DELLE OLIVE IN OLIO DI OLIVA NELL’ANTICA ROMA

TRA CIVITAVECCHIA, TARQUINIA, ALLUMIERE e TOLFA

Ho ampiamente evidenziato e, anche catalogato, le testimonianze eccezionali di resti di presse olearie che caratterizzano il territorio compreso nei comuni di Civitavecchia, Tarquinia, Allumiere e Tolfa.

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olivi visibili nella campagna tra Civitavecchia e Tolfa

UN DATO AFFASCINANTE: una fotografia di questi territori nel periodo romano

Le arae dei torchi sono ancora oggi infisse nel suolo ed emergono sulla superficie dell’odierno piano di calpestio.

Secondo molti studiosi le arae degli antichi torchi, che ancora oggi vediamo, ci testimoniano e documentano l’epoca romana come periodo storico da attribuire agli olivi visibili in queste campagne (ulivi oggi non domestici). Fenomeno questo molto evidente soprattutto lontano dai centri abitati e molto diffuso in questo territorio.

Questo perché tali terreni dopo il periodo romano non sono stati mai più sfruttati sotto il profilo agricolo e quindi ci mostrano una fotografia, un’istantanea di questi territori nel periodo romano.

Quindi l’associazione olivo non domestico e resti degli ambienti del torchio è un dato affascinante!

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torchio oleario in loc. Sferracavallo (Civitavecchia)

L’AMBIENTE DEL TORCHIO OLEARIO

Gli ambienti del torchio nelle ville rustiche romane sono testimoniati dalla presenza di arae, cioè di quelle pietre lavorate con appositi canali per lo scorrimento dell’olio, infisse in ambienti pavimentati ad opus spicatum, come nel sito di “Colline dell’Argento-Costa Romagnola”.

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i resti visibili della villa rustica romana in loc. Colline dell’Argento

Poi un esempio eccezionale di ara ancora infissa nella sua originaria giacitura si può vedere in località “Capo d’Acqua”.

LA TRASFORMAZIONE DELLE OLIVE IN OLIO: il procedimento

Le arae costituivano la piattaforma della complessa macchina del torchio.

Il procedimento della trasformazione delle olive in olio di oliva avveniva all’interno del frantoio, che era composto da due macchinari:

1) il trapetum e 2) il torcular.

Nel trapetum le olive venivano frante dentro il mortarium e la polpa che ne derivava veniva messa all’interno di contenitori costituiti da vimini intrecciati, detti fisci, oggi chiamati fiscoli.

I fiscoli venivano riempiti di questa polpa grossolana e quindi sottoposti a pressione presso il secondo macchinario, il torcular: una volta posti sull’ara, sui fiscoli premeva l’orbis olearius, un elemento dell’apparato che serviva a premere sulla catasta dei fiscoli, e l’orbis olearius veniva a sua volta spinto da uno strumento chiamato prelum, un componente del predetto macchinario del torcular.

Il prelum era spinto, a sua volta, con due metodologie:

  • la vite senza fine, cioè un palo di legno che veniva fatto girare da due addetti in modo che il prelum venisse attratto verso il basso, come conseguenza della rotazione discendente;
  • il metodo a “verricello” cioè sostanzialmente un argano che, con delle stuoie di cuoio attraeva verso il basso il prelum, che così esercitava la pressione. Il prelum all’altro apice trovava il proprio equilibrio grazie agli arbores che, sostanzialmente, permettevano al prelum di non sbandare e mantenere l’equilibrio nell’azione di discesa esercitata con la pressione. Gli arbores erano infissi al suolo grazie a un’altra pietra lavorata che forniva da base che si chiamava lapis pedicinus. Il lapis pedicinus è documentato ampiamente in tutto il territorio considerato e ne è conservato un esempio eccezionale in località “Capo d’Acqua”.

L’UTILIZZO DI ACQUA CALDA e DUE VASCHE

Tutta questa operazione di trasformazione della polpa delle olive in olio di oliva richiedeva anche l’utilizzo di acqua.

Infatti la catasta dei fiscoli veniva irrorata di acqua calda mentre si procedeva nella pressione. Si realizzava così un procedimento di emulsione: i liquidi che derivavano dalla pressatura, affluiti nei tipici canali delle arae, venivano convogliati in vasche di decantazione.

Nella prima vasca di decantazione affluiva direttamente l’olio proveniente dal torcularium, e si attendeva che i resti vegetali solidi e acqua di vegetazione e lavorazione si depositassero in basso, insieme allo strato di acqua.

Quando la precipitazione era completa, cioè l’amurca si era depositata, allora si apriva un secondo canale che permetteva all’olio di passare nella seconda vasca.

Il capulator era  l’inserviente preposto che si occupava di separare olio, acqua e scarti vari dal liquido così ottenuto.

L’olio così ricavato veniva inserito nei dolia.

SANTA MARINELLA E LE SUE ANTICHE VILLE ROMANE-Conferenza

Parlerò dei miei studi relativi alle antiche ville romane del territorio di Santa Marinella (Roma):

“SANTA MARINELLA E LE SUE ANTICHE VILLE ROMANE”

QUANDO: 26 agosto

DOVE: Santa Marinella, Biblioteca Comunale Via Aurelia 310

ORE: 21.00

INGRESSO LIBERO

“Fin dalla fine del IV secolo a.C., il territorio dell’Arco del fiume Mignone è stato oggetto di un profondo cambiamento, che vedremo essere capillare. Un fenomeno che ha interessato un vasto comprensorio delineato a Nord dal corso del fiume Mignone e ad Est dai Monti della Tolfa, comprendente attualmente il territorio amministrativo del comune di Civitavecchia, in parte quello dei comuni di Allumiere, Tolfa, S. Marinella, Tarquinia. La romanizzazione del territorio si ha con uno stravolgimento del paesaggio “culturale” precedente, risalente alla fase d’Epoca Etrusca; uno stravolgimento che si attua con la realizzazione di opere di disboscamento, di terrazzamento, di drenaggio, di piantumazione di alberi, di messa a coltura di terreni incolti, di realizzazione di strade. Ancora attualmente se volgiamo lo sguardo a quella porzione del mondo italico ci renderemmo conto del dato incontrovertibile, visibile ad occhio nudo, di estese suddivisioni dei terreni, della cui funzione attualmente, nel mondo moderno si è perso completamente il ricordo; si tratta di un panorama fossilizzato che risale, nel suo impianto primitivo, ad epoca romana. Un panorama che, grazie ad una attenta lettura, ci svela l’imprescindibile connessione tra organizzazione produttiva e i paesaggi agrari”.

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serata organizzata dall’associazione ArcheoEtruria 

ARCHEOLOGIA DEL PAESAGGIO E OLIO DI OLIVA

L’archeologia del paesaggio si interessa della relazione che intercorre tra gli esseri umani e la terra, nell’antichità.

È uno studio che, per necessità, è eclettico, multidisciplinare, che abbraccia una serie di tecniche, alcune specificatamente archeologiche, ed altre prese a prestito o derivate dalla geografia fisica ed umana, e dalle scienze naturali: fotografia aerea/da satellite, indagini topografiche, geomorfologia e ricostruzione del paesaggio, scavo archeologico, analisi dei dati provenienti dallo scavo e analisi dei dati biologici quali ossa animali, resti di piante e relitti di piante ancora in situ.

 

In questo modo fare archeologia del paesaggio può fornire informazioni fondamentali sull’agricoltura del mondo antico etrusco e romano e sui rapporti intercorrenti tra i cambiamenti dei sistemi di coltivazione e l’emergere del sistema politico etrusco e poi di quello Romano.

I dati paleo-economici (ossa animali, resti vegetali e relitti ancora esistenti di piante antiche) hanno il vantaggio, rispetto a molte altre categorie di dati archeologici, di essere presenti sempre, senza dover far ricorso a scavi di indagine archeologica.

L’organizzazione agricola fornisce una pietra di paragone, con la quale misurare le variazioni dei sistemi socioeconomici nell’ambito della documentazione archeologica.

Studiare l’interazione tra le soluzioni locali ed il più vasto reticolato dei limiti sociali ed economici che le hanno strutturate.

Per quanto attiene alla coltivazione dell’olivo e della vite da parte degli Etruschi, l’evidenza archeobotanica coincide con l’evidenza dei documenti e dei manufatti: vasi per olio profumato furono fabbricati verso la fine del VII secolo a.C.; la tradizione storica situa inoltre l’inizio della coltivazione dell’olivo e della vite intorno a Roma in questa epoca.

Per tradizione si afferma che la coltivazione dell’olivo e della vite sarebbe stata introdotta presso gli Etruschi dai Greci, ma questa spiegazione è semplicistica. Olivo e vite erano quasi certamente piante indigene in Italia come in Grecia, ma la scala temporale della loro coltivazione fu notevolmente differente.

La coltivazione dell’olivo e della vite cominciò ad essere praticata in Italia su scala sistematica solo con l’emergenza del sistema statale etrusco, tra il IX e il VII secolo a.C., quindi più tardi rispetto Grecia e Spagna in cui è attestata questa pratica colturale mista già dal III millennio a.C.

Benché la scala temporale fosse completamente differente, la policoltura sistematica, che implicava l’olivo e la vite, coincise in ogni caso con enormi trasformazioni della società, ed in particolare con il momento in cui i sistemi agricoli riuscirono a superare lo stadio della sola autosufficienza e sussistenza, e quando la società si trasformò.

In Etruria, come ovunque, i nuovi raccolti sostennero popolazioni più numerose, e portarono ad un uso più intensivo del paesaggio; ma essi divennero importanti nell’ambito di una trasformazione culturale diffusa, e nell’ambito dello sviluppo di una élite, che rese il loro sfruttamento realizzabile, necessario e auspicabile.

In Grecia, per esempio, l’evidenza delle tavolette in lineare B indica che la nascita del sistema palaziale probabilmente corrispose ad una caduta nella qualità della dieta per la maggior parte degli agricoltori egei, contrassegnata dalla diminuzione della carne e dell’aumento del pane e dell’olio.

L’archeologia dell’agricoltura etrusca e romana ci racconta quindi che l’intensificarsi dell’agricoltura, insieme con la prima coltivazione sistematica dell’olivo e della vite, e con la trasformazione dei sistemi di allevamento, fu una componente critica della formazione e del mantenimento delle città stato etrusche.

L’archeologia del paesaggio è efficace e importante per studiare l’ordinario ed il quotidiano, l’archeologia delle persone.

 

Bibliografia

Graeme Barker, Archeologia del paesaggio, 17-32, in Alimentazione nel mondo antico, ed. Poligrafico Zecca dello Stato.