NEL DNA DEGLI OLIVI SELVATICI I LORO “PROGENITORI ETRUSCHI”?

*Brani tratti da un articolo pubblicato dalla Rivista di Storia dell’Agricoltura dell’Accademia dei Georgofili, 1,2017

La presenza di olivastri nell’Arco del fiume Mignone o in porzioni della Tuscia pone importanti interrogativi.

L’aspetto più affascinante di questa tematica è che, mentre gli impianti di olivo coltivato in antico sono scomparsi quasi totalmente, nelle aree adiacenti incolte sono sopravvissuti soltanto gli olivastri, non si sa ancora se quelli originali, totalmente diversi dalle varietà coltivate, oppure siano presenti anche quelli imparentati con queste. Soltanto attraverso l’esame del DNA di tali piante sarà possibile accertare l’origine di questi alberi. Questa forma di rinselvatichimento è un dato acquisito dalla scienza agronomica e giuridica, ed è un dato vegetazionale predominate anche nei territori considerati. Lo stesso si può dire della vite.

Vale spendere due parole per cosa si intende per “rinselvaticamento”, cioè spesso con esso si intende quel fenomeno che riguarda delle piante che un tempo costituivano varietà selvatiche dell’olivo coltivate dall’uomo in modo da renderle fruttifere, sfruttando spesso piante selvatiche originarie del luogo, opportunamente trattate. In sostanza secondo R. Mariotti le piante attuali potrebbero essere dei semenzali (piante venute da semi) di varietà coltivate anticamente e che, anche per questo, oggi si presentano in una forma selvatica: in inglese feral forms. Queste piante mantengono i caratteri genetici della pianta madre (cloroplasto e mitocondrio) e solo il 50% del DNA nucleare, l’altro 50% proviene dalla pianta impollinatrice (donatore).

A lungo avevamo sognato che si potessero avere dei dati genetici ricavati da quelle piante che hanno caratterizzato il paesaggio agro-forestale dell’Arco del Mignone. Si è potuto procedere, per ora, allo studio del DNA plastidiale di un numero limitato delle risultanze agroforestali costituite dagli olivi selvatici che insistono su determinate e limitate aree caratterizzate da preesistenze romane, quali le località di “Sferra Cavallo”, “Colline dell’Argento-Costa Romagnola”, “Macchia dell’Infernaccio”.

Tutti questi settori che abbiamo individuato topograficamente, rientranti nel territorio dell’odierno Comune di Civitavecchia, da noi scelti a campione per le loro caratteristiche pedologiche e agroforestali, sono caratterizzati dalla presenza di piante che inizialmente si potevano classificare come oleastri solo ipoteticamente, cioè piante di olivi selvatici che non avevano subito manipolazioni moderne, o forse erano da ricondurre a olivastri, cioè a olivi di origine antropica, con successivo inselvatichimento di piantagioni umane risalenti a epoche recenti o meno o infine da disseminazione naturale da semi di olivo provenienti dai vicini oliveti? Come già si è anticipato, tali interrogativi sono stati parzialmente sciolti da un preliminare studio, da me suggerito, sulla base di quanto sopra, e condotto dal CNR- IBBR (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Bioscienze e Biorisorse) di Perugia. Un’équipe di studiosi specializzati in biologia molecolare e agronomia è stata accompagnata dallo scrivente in un’escursione volta all’individuazione di siti con resti romani costituiti da edifici rustici e con un contesto agroforestale caratterizzato dalla presenza di olivi selvatici e altre specie, tra cui peri selvatici. Gli scriventi hanno mostrato agli studiosi la presenza di questi eccezionali resti funzionali alla produzione olearia d’epoca romana (i famosi resti di torchi, costituiti per lo più dalle pietre che servivano per accatastare e pressare i fiscoli…) e le preesistenze arboree che noi ipotizziamo siano relitti delle antiche cultivar di epoca romana.

L’équipe del CNR-IBBR di Perugia ha selezionato ventisette campioni dalle presenze arboree di questi olivi presenti nei siti evidenziati, campionando foglie, ma anche frutti, che generalmente, ma non esclusivamente, sono di dimensioni ridotte rispetto alla media degli olivi coltivati di piccole dimensioni. Il DNA è stato estratto da ogni campione e sono state effettuate le prime indagini genetiche atte alla classificazione degli stessi. Negli ultimi decenni, sono stati pubblicati numerosi lavori scientifici sullo studio delle differenze tra gli olivi selvatici e le piante coltivate, ma solo recentemente è stato possibile prospettare le prime ipotesi sulle possibili origini dell’olivo domesticato, dall’estremo est del Mediterraneo o addirittura più a est. Grazie ai marcatori plastidiali si è stabilito che la gran parte delle varietà di olivo attualmente coltivate (80-90%) condivide lo stesso lineage o discendenza e quindi la stessa origine materna, a differenza degli olivi selvatici, caratterizzati da altri lineage. I dati preliminari che sono emersi dall’esame dei marcatori plastidiali28 utilizzati su queste piante, hanno confermato che quasi tutti i campioni analizzati possiedono lo stesso genoma plastidiale dei selvatici situati al centro e ovest del Mediterraneo.

Questo potrebbe far supporre la possibile origine delle coltivazioni olivicole del complesso e articolato panorama del comprensorio di Civitavecchia in epoca anche preromana dalla messa in coltura di piante selvatiche già presenti nel territorio . Infine vogliamo sottolineare come varietà di olivo attualmente coltivate presentano, in rarissimi casi, tratti del DNA selvatico, testimonianza di  una sopravvivenza di un antico selvatico che poi si sarebbe affermato e conservato come vera e propria cultivar fino ai nostri giorni.

Questo è il caso della cultivar Canino, ampiamente coltivata nel Lazio e cultivar di riferimento di una Denominazione di Origine Protetta. I dati molecolari quindi possono rivelare l’origine delle varietà, specialmente se supportati da dati storici e archeologici. Queste evidenze potrebbero aiutare a rilanciare l’agricoltura locale, basata su varietà locali, magari già note in epoca etrusca o romana. Data la vicinanza a Civitavecchia, che ha una storia millenaria, ci si sarebbe aspettati di trovarci dinanzi alla presenza di olivi prossimi alla domesticazione, o varietà rinselvatichite, o relitti di antiche cultivar.

Dai dati genetici è evidente che si tratta di un’origine selvatica in tutti e tre i siti, mentre soltanto due piante, tra quelle campionate, risultavano appartenere al clorotipo coltivato.

Ci troveremmo quindi di fronte a relitti di antichissime coltivazioni o a semenzali di queste.

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GLI IMPIEGHI DELL’OLIO D’OLIVA NELL’ANTICA ROMA

Gli alimenti

che hanno sfamato poveri e ricchi nel mondo antico

sono costituiti da

farina, vino

e

olio.

le olive nell'antica Roma

Ma l’alimento più diffuso a livello di plebe doveva essere quello delle olive e dell’olio che ha  comunque un valore nutrizionale dieci volte maggiore rispetto a quello del vino e doppio di quello del grano[1].

L’olio, inoltre, è un prodotto che svolge una funzione poliedrica ed è agevolmente trasportabile in tutto il bacino del Mediterraneo come abbiamo evidenziato, e il suo impiego ha molte destinazioni alternative all’alimentazione[2], come quelle cosmetiche[3], quelle rivolte all’illuminazione[4] o alle cure farmaceutiche e veterinarie.

Per il suo alto grado nutrizionale l’oliva matura l’uomo romano la mangia nel primo pasto del mattino, insieme ad un pezzo di cacio. Ciò interessa i ricchi ma anche la plebe, per cui il rapporto città campagna era un equilibrio che mantenne in piedi la stessa civitas di Roma.

C’era una varietà di oliva da tavola, di colore scuro e di piccole dimensioni, particolarmente indicata per la conserva, che era comunemente conosciuta  come Sallentina, che viene citata per la prima volta in un passo di Catone[5]. Ma Catone consiglia di coltivare in un terreno grasso e caldo altre olive (anche) da tavola (oleam conditivam), quelle olive allungate da conservare (radium maiorem[6]), oltre che quella citata, si possono indicare nelle seguenti:

  • “orchite”( che indica una qualità di olive particolarmente grosse),
  • “posea”, che è un’oliva color porpora che tende a diventare nera, e quindi dolce,
  • “Sergiana”,
  • “colminiana”,
  • “albicera”, che ben attecchiscono in questi luoghi che sono i più adatti, ma soprattutto il contadino dovrà ascoltare  i vicini se e quale di queste è la migliore nell’attecchire e fruttificare. Insomma un alimento già in se, l’oliva è nutrimento.

A queste varietà di olive Columella aggiungerà varie specie di olivo, che evidentemente connotavano anche il frutto: il “Pausio”, l’“Algiano”, il “Liciniano”, il “Sergio”, il “Nevio”, il “Culminio”, l’”Orchide”, che troviamo, abbiamo visto in Catone come pianta famosa per la carne abbondante dell’oliva,  il “Regio”, il “Cercite”, il “Mirteo”. Ma anche queste sono per lo più destinate ad essere un ottimo alimento, piuttosto che per l’olio: innanzi tutto i frutti del “Pausio” (che ha stretta attinenza alla catoniana posea?) e quelli dell “Regio”, l’“Orchite”, la quale come detto è un’oliva particolarmente grossa, e la “Raggia”, mentre adatte a fare un ottimo olio sono la “Liciniana” e la “Sergia”. Comunemente- afferma Columella- evidentemente fatta eccezione per la Sallantina di Catone, le olive più  grandi sono destinate alla tavola come cibo.

Ciò interessa i ricchi ma anche la plebe, per cui il rapporto città campagna era un equilibrio che mantenne in piedi la stessa civitas di Roma.  Per i ceti sociali più bassi l’oliva in se era un piatto che poteva sostituire la carne.

Quindi l’uso alimentare del prodotto ebbe un rilievo di prim’ordine in Roma, già intorno al VI sec.a.C. Interessante che l’uso alimentare è documentato, anzi esaltato nel III sec.a.C. da Archestrato di Gela, gastronomo siciliano, viaggiatore e poeta, nel suo Gastronomia nei frammenti che ci sono rimasti esalta le qualità dell’olio, unito ad aromi tritati, quale modo migliore per accompagnare i cibi, suggerendo di ridurre al minimo ogni altro tipo di condimento. A quest’ultimo gli fa eco il famoso Apicio, il cui De coquinaria rappresenta una sintesi di ricette maturate nei secoli, e qui l’olio è associato ai cereali, intingoli vari, alle carni. In epoca imperiale nelle cene aristocratiche, anche quelle più importanti, Marziale ci racconta che era consuetudine servirle prima e dopo ogni pasto. In particolare si consigliavano le olive Picene[7] che era una particolare oliva verde da mensa  che si distingue per la sua polpa tenera, di cui oggi potremmo esaltare le sue qualità organolettiche. Avevano una funzione di antipasto, sia offerte alla fine quando ci si intratteneva a bere.Solitamente erano conservate in salamoia, cioè acqua con sale marino, ben immerse nel liquido, fino al momento in cui, per l’uso, si scolavano, snocciolavano tritandole e ricoprendole di miele.

Come già abbiamo rilevato l’olio fu uno dei cardini dell’alimentazione, anche presso i ceti meno abbienti. Il più pregiato era l’Oleum ex Albis Olivis che era un prodotto che aveva oggettive qualità organolettiche maggiori rispetto ad altri oli, ciò non era conosciuto dai Romani, fatto sta che era considerato un prodotto di altissimo pregio ottenuto da olive di colore verde.

Stesso discorso si può fare per un altro olio che potremmo definire di livello aristocratico, si tratta dell’Oleum viride, in quanto forse qualitativamente il più valido (sotto il profilo nutrizionale), che veniva estratto da olive appena invaiate, ovvero all’inizio della maturazione; Oleum maturum, quello ottenuto invece da olive che avevano percorso il ciclo naturale, e quindi erano nere e già mature, di qualità piuttosto inferiore ai primi due oli; Oleum caducum, di qualità mediocre, quello che veniva estratto da olive raccolte da terra e quindi avevano secrezionato acidi deleteri per chi lo consumava, si chiamava così perché costituito da olive cadute dall’albero per maturazione avanzata.

Oleum cibarium, infine, per indicare un prodotto di pessima qualità, ottenuto da olive aggredite da parassiti e destinato in parte all’alimentazione degli schiavi e in parte a usi diversi. Mi domando se con tale denominazione si potesse indicare l’olio non ricavato dalle olive ma quello che abbiamo detto essere estratto dal lentisco, su ciò ci sono varie riflessioni scientifiche in corso.
Un’ultima osservazione può infine essere dedicata agli usi accessori dell’olio e dei suoi derivati. L’amurca e gli scarti delle lavorazioni dei prodotti edibili non venivano infatti eliminati, ma impiegati in altri settori tecnologici o medicamentosi, per i primi naturalmente abbiamo l’uso dell’olio come combustibile, che tra l’altro è stato documentato per Cipro già nell’età del Bronzo, un settore specifico era l’illuminazione.

Sappiamo che i Romani usavano illuminare le loro case ma anche i posti di lavoro, come il frantoio con delle lucerne per illuminare. Questo accadrà in tutta la storia di Roma, e raramente si utilizzava grasso animale ma, bensì, il nostro combustibile costituito da olio puro d’oliva che sarebbe pervenuto soprattutto dalle province africane. Da Adriano in poi Africa Proconsularis. Se si trattava di olio puro esso produceva luce più chiara, oppure poteva essere olio misto a sego, il quale dava invece un’illuminazione più scarsa.

Come si è già anticipato anche per la cosmesi l’olio era l’ingrediente principale. E costituiva un business che oggi diremmo “globale” la realizzazione di cosmetici che avevano come base chimica l’olio (ricavato da olive  acerbe e olive molite con le relative foglie) ma che poteva essere unito in macerazione a radici di piante che – decorso il tempo necessario – portavano alla realizzazione di profumi, di cui il più famoso è il “rhodinum”, dove accanto alla base oleosa abbiamo: rosa, zafferano, cinnabaro, calamo, miele e fiore di sale. Di questo business naturalmente, come sempre la causa era la domanda di tutti quei popoli, in primis i Romani, che avevano scoperto l’ellenismo, quel calderone di colture in cui erano confluite le mollezze di un Egitto eternamente esempio di moda. Quindi il considerare il corpo, i bagni termali avevano trovato terreno fertile nella cura dell’aspetto esteriore, nei Romani, e particolarmente le matronae della città, erano state le più sensibili al modello ellenistico della donna curata in tutto il suo molle splendore, ammessa ai riti dionisiaci, e quindi dovevano necessariamente, oltre che imitare nell’aspetto un modello ellenistico di donna, anche nel profumo, arrivava a cospargersi con costosi balsami e unguenti dopo il bagno: Plinio ci informa che ogni anno oltre 100 milioni di sesterzi impinguavano le casse di stati orientali e africani (Alessandria in primis), produttori di preziosi cosmetici; anche la fortuna di centri come Capua e Pozzuoli era legata alla produzione di essenze. Non essendo ancora conosciuto il processo di distillazione, introdotto dagli Arabi solo nel IX secolo d.C., le essenze erano ottenute per spremitura e macerazione. La base oleosa (tecnicamente chiamata onfacio) era costituita da olio di olive verdi o da succo di uva acerba (agresto) e in essa venivano fatte macerare sostanze profumate insieme a coloranti.

Il mondo greco ci dà una matura presa di coscienza delle capacità mediche dell’olio di oliva, oltre a dare una fondazione mitica all’albero che si rifarebbe ad una gara tra la Pallade Atena e l’Algoso Poseidone, quindi mentre quest’ultimo avrebbe creato il mare che cinge l’Attica, la prima avrebbe dato vita a questo albero. Per continuare basti pensare che l’alloro è sacro ad Apollo e l’olivo ad Atena, ci sarebbe quindi parità se non fosse che per l’utilità dei suoi frutti esso avrebbe manifesta  superiorità, in quanto fornisce cibo, bevanda e unguento. Inoltre la sua fronda è portata dai supplici e ad un olivo si appoggiò Leto prima di dare alla luce Apollo ed Artemide (Hym. in Delum 262, 321). Quindi con motivazioni valide viene dichiarato vincitore.

Ma quello che più affascina è una consolidata letteratura scientifica per autori greci ed ellenistici che si sono occupati di botanica, medicina, agricoltura e hanno una perfetta coscienza della morfologia dell’albero, le foglie e il frutto, l’oliva. Naturalmente fanno vere e proprie concettualizzazioni dell’utilità dell’olio. Teofrasto, fondatore della botanica, alla fine del III secolo a.C., dedica ampio spazio alle descrizioni morfologiche della pianta nel Historia  Plantarum (di cui in nota le iniziali). Lo considera un esempio di albero a fusto singolo con molti rami[8], il legno non oppone una resistenza a carattere di elasticità, e quindi si spezza facilmente perché è duro, oltre ad essere storto[9]. Il colore delle foglie differisce fra la parte superiore ed inferiore, che è più bianca e meno levigata[10]; ecco che introduce la differenza tra l’olivo selvatico e quello coltivato, nei frutti, nelle foglie e in altre parti[11].

Secondo Teofrasto le piante si propagano spontaneamente o da semi, da una radice, o da un pollone, da un virgulto, dal tronco stesso o da un ramoscello; l’olivo si riproduce in molti modi ma piantato a terra non cresce come l’olivo e il melograno[12]. La sua caratteristica di tale pianta è che può diventare selvatica e anche viceversa, fatto però piuttosto difficile[13].

Un carattere che distingue questa pianta sarebbe che non può esistere lontano dal mare, la distanza massima sarebbe di 300 stadi[14]; è caratterizzato dalla longevità in quanto vivrebbe almeno fino a duecento anni, il selvatico sarebbe più longevo ancora[15].

Teofrasto da ultimo insegnava che le olive “rozze grossolane” delle piante selvatiche erano più indicate per i profumi in quanto davano un olio puro, chiaro e poco grasso[16].

Dioscoride nel I secolo a.C. elabora un pensiero[17] scientifico intorno alla pianta d’olivo, esaminandola sotto il punto di vista farmacologico, soffermandosi sul fatto, che sotto questo aspetto, l’olivo selvatico era più indicato per i medicamenti[18], ciò è tanto vero che le foglie dell’olivo selvatico avrebbero proprietà astringenti e purificanti e quindi potevano essere raccomandate  contro malattie cutanee come erisipele, erpeti, pustole ecc., ma anche per le ulcere e le infiammazioni; potevano avere un potere curativo contro emorragie, malattie intestinali ed occhi[19]. Anche l’olivo domestico avrebbe capacità simili ma si potrebbe rilevare meno efficace. Le olive della pianta selvatica, afferma Dioscoride, una volta tritate e usate come cataplasma disinfettano le piaghe e la salamoia usata per sciacquare la bocca elimina il gonfiore delle gengive e rinsalda i denti malfermi[20].

Plinio aveva studiato questi autori e dedica all’argomento molti capitoli del libro XV (I-34), riprende soprattutto Teofrasto e gli insegnamenti impartiti – ormai arcaici – da Catone nel De Agri Cultura (XV, 21-24). Nel Corpus Hippocraticum vino caldo e olio sono usati per un’infusione in caso di accesso al polmone[21]; si prescrive un composto a base di foglie di alloro, giusquiamo, incenso, vino bianco e olio in parti uguali, che doveva essere scaldato e poi usato per frizionare il corpo di un paziente nella ipotesi di avvelenamento da tetano[22], oppure usato come unguento per la cura delle ferite[23] ma questo lo sappiamo già dalla “parabola del buon samaritano” in Luca 10,30, dove la persona soccorsa viene fasciata  “… versandovi olio e vino”.

 

l'olio d'oliva nell'antichità

NOTE

[1]Levi 1980, p.226

[2]Cat.de Agr. LXXVI, 2;. Sotto il profilo culinario dall’uomo romano si privilegiasse  un olio leggeremnte acido e un gusto più marcato, a riprova direi che il seme venisse schiacciato con il resto dell’oliva. Cfr. Brun 1987, p. 55. e anche Amouretti 1986, pp. 177-183.

[3] Teofrasto, Char., XVIII, 4 in Amouretti 1986, pp. 188 e 190, f. 30.

[4]Plin.N.H.. XXIII, 81; Col VI, 4-36. Sugli svariati usi dell’olio (anche tessili e religiosi) e dei residui (amurca) cfr. anche Besnier 1963, pp. 165, pp. 168-169; Amouretti 1986, pp. 191-196; Brun 1987, pp. 55-56; dove si sottolinea,  inoltre, che vino e olio costituivano nel mondo antico dei veri e propri agenti chimici con la capacità solvente. .

[5] Cat. de Agr. VIII, 6, Varro R.R. I,24; Plin. N.H. XV,6.20

[6] Serv. ad Ver. Georg. II,86

[7] Mar. Epig. IX,54, da alcuni definite “ascolane” (si tratta della regione che oggi  riconduciamo ad “Ascoli Piceno”)

[8]HP I, 3, I.

[9]HP I, 5, 4 e 5.

[10]HP, I, 10, 2.

[11]HP I; I4, 4.

[12]HP II, I, I e 2.

[13]HP II, 3, I.

[14]HP VI, 2, 4.

[15]HP IV, 13, I.

[16]Causis Plantarum VI, 8, 3 e De Odoribus IV, 15.

[17]Dioscoride, De materia medica.

[18]Un concetto ripreso in Plinio, Pl. XV, 24 e XIII,77.

[19] C.H.De materia medica I, 105.

[20] C.H.De materia medica I, 105, 4.

[21]C.H. De Moribus II, 60.

[22]C.H. De Interioribus affectionibus , 52.

[23]C.H.De Ulceribus 21 e 23.

Tecnologia dell’olivicoltura. Conferenza

“Tecnologia dell’olivicoltura

e del frantoio

nel mondo antico”

questo il titolo della mia conferenza che si svolgerà il giorno 19 luglio 2019 presso il Castello di Santa Severa (Roma) nell’ambito della manifestazione “Uomini, Cose e Paesaggi del Mondo antico”.

A cura del Museo del Mare e della navigazione antica di Santa Marinella, in collaborazione con il Gruppo Archeologico del Territorio Cerite, Lazio Crea e Coopculture. 

QUANDO

19 luglio 2019

DOVE

Castello di Santa Severa (Roma)

ORE

21.15

ingresso libero

Vi aspetto!

 

locandina 19 luglio santa severa

L’OLIO D’OLIVA NELL’ANTICHITÀ NEL LAZIO SETTENTRIONALE

 

Le ricerche di Vincenzo Allegrezza nel Lazio Settentrionale comprendono sia l’Arco del Mignone che il territorio della Tuscia.

Conferenza del 16 marzo 2019 presso la STAS (Società Tarquiniese di Arte e Storia) di Tarquinia, presieduta dalla Presidente Alessandra Sileoni:

“La tecnologia dell’olivicoltura e del frantoio nell’antichità”

 

PIANTAGIONI DI OLIVI E DI VITE

Innanzi tutto per sapere quali tesori i Romani depredarono agli Etruschi bisogna rilevare che essi consistettero nelle piantagioni di olivi, soprattutto, e di vite.

Da queste considerazioni ho studiato il territorio intorno ad un centro, quello di Aquae Tauri, che in epoca etrusca fu densamente popolato. Ciò lo sappiamo dalle necropoli di “Pisciarelli” dove sono state rinvenute già nel 1800 numerose sepolture tra il VI e il V secolo a.C. che dovevano costituire la necropoli di quell’abitato etrusco di cui ci parla Plinio il Vecchio con quel nome citato, come etnicamente specifico.

 

INTENSO SFRUTTAMENTO OLIVICOLO

All’indomani della conquista romana la preoccupazione fu quella di realizzare un territorio sfruttato intensivamente economicamente, e militarmente organizzato. Infatti tutto il territorio circostante la città, forse un tempo terreno “pubblico” fu sottoposto con la presenza romana ad intenso sfruttamento olivicolo.

Sappiamo ciò da quanto possiamo rilevare che siti sorgenti sulle pendici montante e collinari intorno al centro abitato sono stati realizzati già nella seconda metà del III secolo a.C. con una specifica destinazione olivicola, come possiamo rilevare dalla presenza di numerose basi di presse olearie, le c.d. arae di cui ci parla Catone.

Possiamo rilevare ciò sia da quanto ci riportano studiosi come Salvatore Bastianelli nei suoi “Appunti di Campagna”, sia dai rilievi fatti dallo scrivente da siti come “Sferra Cavallo” per fare un esempio. Ma il novero potrebbe continuare, si pensi a tutti gli altri insediamenti nei toponimi, come “Capo d’Acqua” (si tratta di un termine evocativo che ci riporta a “Aquae Tauri”), e anche “Le Larghe” e “Ponton dei Fiorazzi”. Presso tutti questi toponimi si rilevano siti dove possiamo trovare basi di presse molto ben curate e pressoché coeve alla seconda metà del III secolo a.C., che sembrano cingere tutta l’area che dovette essere di stretta imputazione del centro etrusco.

 

Santuario etrusco e fattoria olivicola

Per quanto riguarda “Ponton dei Fiorazzi” si rileva la presenza di un piccolo santuario etrusco e, forse, poi romano, oltre ad una fattoria con forte vocazione olivicola. In ogni caso ad una quota più elevata  troviamo il santuario di “Poggio Granarolo” in cui è documentato l’esistenza di un altro centro sacro, numerosi sono i resti di frammenti “anatomici” ed “ex voto” registrati dalla stessa Soprintendenza dell’Etruria Meridionale, così ad Ovest troviamo il tempio tardo etrusco di “Scarti di S.Antonio” dove lo scrivente trovò importanti acroteri d’epoca etrusca, ascrivibili forse alla fine del III secolo a.C., e sui resti del quale dovette sorgere nel 170 a.C. una villa che distrusse gli antichi resti di santuario. Evocativo è il periodo di scontri etnici che ebbe il suo apice nel senatoconsulto “De Baccanalibus”, a sottolineare un effettivo scontro tra popolazioni ancora non sopito. Anche tale insediamento era dotato di una base di pressa olearia.

 

Estesi oliveti e studio genetico

Lo scrivente, considerata questa realtà di numerose presse olearie ha dedotto l’esistenza di estesi oliveti, che erano stati realizzati già in epoca etrusca, quindi ha ricercato se si potevano individuare i resti di antiche cultivar  nel comprensorio.

Una forte presenza di olivi selvatici si riscontravano nel lato Nord di “Sferra Cavallo”, e nella grande macchia de “L’Infernaccio”. L’idea dello scrivente fu che  tali olivi selvatici potevano essere una nicchia ecologica in cui, al margine dei campi coltivati, si erano “congelate” le antiche colture sotto il profilo genetico, allora decise di coordinare un esperimento con il CNR–IBBR (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto di Bioscenze e Biorisorese), questo esperimento consisteva nell’indagare geneticamente le testimonianze di olivi selvatici per accertare se a livello di “germoplasma” si fossero mantenuti dei particolari dati genetici che ci potevano riportare ad antiche coltivazioni. I risultati portarono alla scoperta di olivi “selvatici puri”, che dovevano ricondursi a coltivazioni risalenti almeno all’epoca etrusca.

Essi infatti non avevano traccia di dati genetici acquisiti successivamente a tale periodo, nemmeno dalla  dominazione romana.

E’ però solo un tassello, un’indagine accurata potrà dimostrare o smentire tale assunto, ma servono impegni economici rilevanti, magari con finanziamenti europei.  Non è un caso che all’interno di questa “nicchia” sorgeva un’altra fattoria da determinarsi risalente al periodo del III secolo a.C., con un ricco frantoio i cui resti ci sono stati tramandati dai disegni di Bastianelli.

 

Un “Museo diffuso del frantoio”

Al fine di questa piccola carrellata, che altro non è che un “tassello” di quanto lo scrivente ha riversato nel suo primo libro “Olio e produzione olearia in Roma antica”, e nel secondo inedito “L’olio d’oliva nell’antichità. Dal Mediterraneo alla Tuscia, e Leonardo da Vinci”, possiamo dire che la grande quantità di arae funzionali alla produzione olearia (si pensi anche a Pian degli Organi) potrebbero delineare questo territorio nell’entroterra di Civitavecchia e nell’Arco del Fiume Mignone come un

    Museo diffuso del frantoio”.

 

OLIO DI OLIVO, MITO e MEDICINA

L’OLIO DI OLIVA NEL MONDO ANTICO AVEVA DIVERSE FUNZIONI

L’olio di oliva nell’antichità aveva diversi ruoli, non solo culinari ma anche terapeutici, sia per prevenire le malattie che per curarle.

L’olio era a base della cosmesi, e serviva da carburante per le lucerne.

foglia_di_ulivo

NEL PARTENONE

Al centro del frontone del Partenone, inoltre, era scolpito, sul lato occidentale della collina, un albero d’olivo.

Perché questo? perché è secondo il mito che, in una gara sul dominio dell’Attica, si sfidarono in una contesa Poseidone e Atena stessa, con Giove come giudice.

La gara consisteva nell’inventare quella che sarebbe stata la cosa più utile per l’Uomo: Poseidone creò il mare o forse anche il cavallo, ma Atena decise di creare l’olivo, la cui pianta era conservata all’interno della cella del tempio.

E fu lei la vincitrice della contesa.

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OLIVO SIMBOLO DI PACE

Quindi il mito (come la religione cristiana) danno all’olivo un significato spesso di pace. Nei giochi Panatenaici chi vinceva aveva un congruo numero di anfore contenenti Olio, che equivaleva a due anni di lavoro di un operaio.

Ad Olimpia il vincitore delle Olimpiadi era incoronato con un ramoscello d’olivo.

NELLA ROMA ANTICA L’OLIO DI OLIVA COME MEDICINA

Ora ecco l’aspetto sacro, trasfuso anche presso i Romani insieme a quello delle competizioni. Ma l’olio è contro le artriti, previene se tenuto in bocca le carie, è emolliente, astringente, purificante, è utile contro le malattie cutanee come erisipele, erpeti, pustole, previene e cura le ulcere.

In cucina l’olio è poi, sotto il profilo strettamente alimentare, la più importante fonte di grassi, ricco di polifenoli e trova un uso svariato che va dalla funzione di elemento per la frittura al condimento delle carni.

CIVITAVECCHIA-Presentazione Libro

Presentazione

del libro di Vincenzo Allegrezza ( a cura di Francesca Pontani) “Olio e produzione olearia in Roma antica. L’olio di oliva e il regime giuridico ed economico della villa e della fattoria” Civitavecchia 2016

(puoi acquistare il libro QUI)

Introduce Gino Saladini, scrittore, criminologo, medico legale

Interviene Glauco Stracci, Movimento Archeoetruria

Interviene l’autore Vincenzo Allegrezza

DOVE

Civitavecchia, Fondazione Cassa di Risparmio Civitavecchia, Via Risorgimento, 8/12

QUANDO

23 febbraio

ORE

17.30

ingresso libero

Nel libro “Olio e produzione olearia in Roma antica” l’autore parte dall’esame di un territorio che è delineato dall’Arco del fiume Mignone e che interessa i comuni di Tarquinia, Tolfa, Allumiere, Santa Marinella e Civitavecchia, per ricostruire il mondo agricolo che risale all’epoca Romana.

In particolare si esaminano le antiche vestigia di quelle che sono le forme di sfruttamento della terra che si instaurano molto precocemente, fin dal III secolo a.C., quando l’uomo romano, conquistata l’Etruria, destina i terreni all’attività agricola, sfruttando il territorio attraverso la realizzazione di numerose strutture agrarie. Strutture agrarie che sono realtà architettoniche costituite da insediamenti rurali autonomi, sotto il profilo della produzione agricola, e che sono chiamate comunemente da Livio con il termine di “ville”.

La lente di ingrandimento si sofferma soprattutto su una delle attività più frequentemente attestate in questi insediamenti: l’attività di produzione olearia. Così si scopre che questo territorio fu indirizzato prevalentemente a estesi oliveti che ricoprivano le campagne, le colline, le zone pedemontane.

Un fenomeno che possiamo agevolmente ricostruire grazie alla presenza di numerose pietre che fungevano da basi delle presse olearie che si trovano in quantità innumerevole in questi siti, e da un altro elemento che Vincenzo Allegrezza documenta: la presenza diffusa di olivi non domestici che ancora oggi popolano quelle campagne.

L’autore, da attento osservatore del territorio, pone una domanda: è possibile che tali olivi, attualmente allo stato selvatico, possano derivare dalle antiche colture praticate prima dagli Etruschi e poi dai Romani?

A dare una risposta a questa domanda sarà la scienza biologica e paleobotanica: nel libro troviamo anche questa indagine, affascinante e straordinariamente coinvolgente.

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Presentazione del Libro-Sala Ce.Di.Do. a Viterbo

Venerdì 20 gennaio 2017 la presentazione del libro:

“Olio e produzione olearia in Roma antica. L’olio di Oliva  nel regime giuridico ed economico della villa e della fattoria”

Evento organizzato dall’Associazione Archeotuscia onlus.

QUANDO: 20 gennaio 2017

DOVE: Viterbo, Sala CE.DI.DO., Piazza San Lorenzo

ORE: 17.00

ingresso libero

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CONFERENZA-PRESENTAZIONE LIBRO: Vetralla 8 dicembre

VETRALLA PRESENTAZIONE LIBRO “Olio e produzione Olearia in Roma antica”

Il giorno 8 dicembre presenterò il libro appena pubblicato “Olio e produzione olearia in Roma antica“.

DOVE

VETRALLA (Viterbo), in occasione della Festa dell’Olio

Sala Consiliare del Comune, Piazza Umberto I

QUANDO

8 dicembre 2016

ORE

Ore 15.30

ingresso libero

Manifestazione nell’ambito delle iniziative del Circolo dei Lettori Biblioteca Comunale “A. Pistella” di Vetralla.

LA CONFERENZA

Argomento della conferenza:

Dai resti dei torchi oleari del III secolo a.C. allo studio del DNA degli olivi: nuove prospettive per la ricerca archeologica.

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Verranno esaminati i resti antichi di quelle forme di sfruttamento della terra che si instaurano molto precocemente, fin dal III secolo a.C., quando l’uomo romano, conquistata l’Etruria, destina i terreni all’attività agricola, sfruttando il territorio attraverso la realizzazione di numerose strutture agrarie. Strutture agrarie che sono realtà architettoniche costituite da insediamenti rurali autonomi, sotto il profilo della produzione agricola, e che sono chiamate comunemente da Livio con il termine di “ville”.

La lente di ingrandimento si soffermerà soprattutto su una delle attività più frequentemente attestate in questi insediamenti: l’attività di produzione olearia.

Un fenomeno che possiamo agevolmente ricostruire grazie alla presenza ancora oggi nelle nostre campagne di numerose pietre che fungevano da basi delle presse olearie, e da un altro elemento che ho documentato nel libro: la presenza diffusa di olivi non domestici che ancora oggi popolano quelle campagne.

Da attento osservatore del territorio infatti mi sono posto una domanda: è possibile che tali olivi, attualmente allo stato selvatico, possano derivare dalle antiche colture praticate prima dagli Etruschi e poi dai Romani?

A dare una risposta a questa domanda sarà la scienza biologica e paleobotanica: nella conferenza si parlerà anche di questa indagine, affascinante e straordinariamente coinvolgente!

Vi aspetto!

La Sala Consiliare si trova all’interno dell’edificio sulla destra dell’immagine:

LA VILLA ROMANA DE LA FARNESIANA

LA VILLA RUSTICA ROMANA DE LA FARNESIANA

A pochi metri dal borgo Ottocentesco de La Farnesiana (Allumiere) sono stati indagati i resti di una villa rustica romana.

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La villa romana venne studiata per la prima volta nel 1985 dalla Soprintendenza Archeologica Etruria Meridionale, mentre gli ultimi scavi risalgono al 2007-09.

In particolare i risultati delle indagini archeologiche a cura di Fabrizio Vallelonga del 2009 sono pubblicate a pp. 47-55 del “Notiziario IX” del Museo Civico di Allumiere: https://www.academia.edu/1466372/notiziario_IX_A_short_guide_to_the_prehistory_of_Monti_della_Tolfa_Central_Italy_._italian

La villa copre un’area di circa 25 x 12 mt., ma probabilmente nel suo periodo di massimo splendore deve aver coperto tutto il pianoro sovrastante.

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UN EDIFICIO RURALE

I resti archeologici rinvenuti in località La Farnesiana si riferiscono ad un edificio rurale che rientra nella vasta categoria delle ville rustiche di epoca romana, edifici funzionali alla produzione, conservazione e lavorazione dei prodotti agricoli.

La villa rustica era in genere articolata in due settori:

  1. la pars urbana destinata alla residenza del proprietario e della sua famiglia e caratterizzata da un maggior decoro degli ambienti e
  2. la pars rustica che comprendeva gli alloggi per gli schiavi e gli impianti agricoli.

 

VINO,OLIO, GRANO

Le ville dell’Italia centro-meridionale producevano in prevalenza grano, olio e vino come attestato anche dai resti di strumenti utilizzati per la spremitura delle olive e dell’uva (torculares) e di grandi contenitori ceramici per la conservazione delle derrate (dolia) in genere collocati in grandi cortili o magazzini coperti (cellae).

I prodotti erano destinati sia al consumo interno che ai mercati locali e, nel caso dei grandi latifondi, a quelli del Mediterraneo.

IL PROPRIETARIO DELLA VILLA RUSTICA

Il proprietario di norma risiedeva nella villa per periodi limitati svolgendo non solo le incombenze legate alla produzione agricola, ma, approfittando della lontananza dalla città, per dedicarsi ad attività culturali e di relax. In sua assenza la gestione era affidata ai vilici incaricati della sorveglianza del lavoro della manodopera servile.

GLI SCHIAVI RURALI

Le condizioni di vita degli schiavi rurali erano particolarmente dure: considerati alla stregua di animali e costretti a lavori massacranti, difficilmente potevano aspirare, come i servi di città, al raggiungimento della libertà personale.

LE FASI DI UTILIZZO DELLA VILLA ROMANA DE LA FARNESIANA

Fase I: II secolo a.C.

Fase II: IV secolo d.C.

Fase III: sepolture del VI-VII secolo d.C.

La villa risulta fortemente danneggiata dalla strada e attualmente non sono visibili resti emergenti, lasciati ricoperti di terra per meglio conservare le strutture sottostanti.

Sono state individuate due fasi principali di utilizzo: Fase I (II secolo a.C.) e Fase II (IV secolo d.C.), più una fase finale di utilizzo dell’area come luogo di sepoltura (Fase III, VI-VII secolo d.).

La villa era organizzata su piani terrazzati che assecondavano la pendenza del terreno, sicuramente più accentuata in antico quando non esisteva la strada attuale che oblitera parte del complesso.

Nell’ambiente VI viene realizzata (nella fase II) una piccola fornace; l’ambiente VIII era utilizzato come magazzino di derrate alimentari, al suo interno infatti sono stati individuati i resti di dolii seminterrati, cioè di grandi vasi che servivano a contenere olio e vino.

LE SEPOLTURE ALL’INTERNO DELLA VILLA

Nell’ambiente IV è stata ritrovata una tomba a cappuccina, con il vaso deposto in prossimità della testa.

In età romana coesistevano due differenti rituali di sepoltura: la cremazione e l‘inumazione.

Il rito dell’inumazione era il più semplice: il corpo veniva deposto supino, all’interno della fossa scavata nel terreno e a volte poteva essere protetto con tegole disposte a doppio spiovente (= copertura alla cappuccina).

UN ESEMPIO DI VILLA RUSTICA ROMANA

Un esempio di villa rustica è quella “della Pisanella” a Boscoreale (Napoli) che ci mostra in maniera molto dettagliata i vari ambienti di una villa romana di questo tipo:

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  1. pars urbana: 1) sala da pranzo; 2) camera; 3) panificio con macine e forno; 4) cucina; 5-8) bagno e impianto termale.
  2. pars rustica: 9) ripostiglio per gli attrezzi; 10) stalla); 11) stanze degli schiavi; 12) cantina per spremitura uva e conservazione vino; 13-14) frantoio; 15-16) corridoio e cortile con contenitori per olio (dolia); 17) granaio; 18) area per la battitura

 

 

 

L’OLIVO

L’OLIVO: TESORO DEL BACINO DEL MEDITERRANEO 

All’albero dell’olivo e al suo liquido sono stati attribuiti fin dall’antichità grandi messaggi simbolici e profetici. Pianta sacra da tempo immemore, l’olivo è il protagonista di numerose leggende mitologiche che gli attribuiscono un’origine divina.

Secondo il mito greco l’olivo era consacrato ad Atena e sotto una pianta di olivo nacquero Apollo e Artemide. In Grecia nei giochi olimpici la testa dei vincitori era cinta con i rami dell’albero di olivo.

L’olio di oliva aveva alimentato i lumi dei templi e gli Etruschi già nel VII secolo a.C. ne possedevano vastissime piantagioni, conoscendo bene il valore di questo prezioso oro verde.

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VALORE SACRO

Dall’Asia Minore, all’Etruria fino a Roma il valore sacro dell’olivo assunse diversi significati e allegorie. Troviamo menzione dell’olio e dell’olivo anche nei primi capitoli della Bibbia, quando il nascente cristianesimo si appropriò di tutte le immagini positive legate alla pianta, condensandole in uno dei primi simboli dell nuova religione:

La Bibbia testimonia la coltivazione dell’olivo nelle terre della Palestina. Nel libro della Genesi, Noè riceve da una colomba un ramo d’olivo a dimostrare la fine del diluvio; nell’Esodo, il Signore ordina a Mosè di procurarsi “olio puro d’olive schiacciate per il candelabro”, per tenere sempre accesa una lampada; e nel Levitico si offrono “focaccine azzime di fior di farina impastata con olio”. La terra promessa, nel Deuteronomio, è “paese di olivi, di olio e di miele …”. Con l’olio di oliva si cosparge il Messia-Khristòs, l’Unto del Signore e nel Vangelo secondo Marco gli apostoli “scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano”

(da G.Barbera, Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura, Milano 2007, p. 150)

UN DONO DI DIO

Un dono di Dio, perché sulla tomba di Adamo (nel monte Tavor) nacque la pianta dell’olivo, il cui seme proveniva dal paradiso terrestre: quindi simbolo di pace, fecondità e benedizione divina, ma anche simbolo della giustizia e della sapienza.

Nella religione cristiana la pianta dell’olivo ricopre, infatti, molte simbologie, se ne parla nell’Antico Testamento quando calmatosi il diluvio universale, una colomba portò a Noè un ramoscello di olivo per annunciargli che la terra e il cielo si erano riconciliati alla pace e alla felicità nel regno del Signore.

NEI VANGELI

Ma la simbologia dell’olivo si ritrova anche nei Vangeli quando Gesù fu ricevuto calorosamente dalla folla che agitava foglie di palma e ramoscelli d’olivo al suo ingresso in Gerusalemme e trascorse in preghiera gli ultimi giorni terreni nell’uliveto dei Getsemani, letteralmente”il luogo del frantoio”.

L’OLIO DI OLIVA E’ IL CRISMA

L’olio di oliva è il Crisma, dal greco khrisma, unzione, usato in tutti i sacramenti della liturgia, esso era ed è un elemento fondamentale in quasi tutti i misteri sacerdotali, dal battesimo all’ordinazione, dove è usato materialmente per le unzioni.

Lo Spirito Santo di cui l’olio è simbolo, è accordato pienamente a Gesù per unzione: “Bisogna ricordare che la parola ebraica che significa “unto” va dato per trascrizione a Messia, e che la trascrizione greca è Cristo”

da J. Chevalier – A.Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Milano 1986, p. 152

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LE SUE FRONDE

Le sue fronde simboleggiano da millenni la pace, l’onore e la vittoria: sono rami d’olivo quelli che vengono benedetti e portati nelle case la domenica delle palme e l’anno successivo bruciati e le loro ceneri sparse sulla testa dei fedeli che iniziano la quaresima, il mercoledì delle ceneri.

Fra i molti racconti che hanno accompagnato questa pianta nei secoli c’è anche una leggenda che racconta di come l’albero dell’olivo, un tempo dritto e robusto, volle distorcersi per non venire usato dal falegname che doveva costruire la croce, su cui Gesù Cristo sarebbe stato inchiodato per il supplizio.

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